Lo
spazio non è solo un vuoto, è uno spazio carico di qualità che ha una sua
storia.
Nell’esperienza
occidentale lo spazio era quello della localizzazione; uno spazio nato nel
Medioevo che esprimeva un insieme gerarchizzato di luoghi. Vi erano spazi
protetti e difesi, luoghi rurali, luoghi urbani, luoghi sacri o profani.
Questo
spazio delle localizzazioni si è aperto con Galilei che ha costituito con la sua opera uno spazio infinito e infinitamente aperto.
A
partire dal XVII secolo l’estensione sostituisce quindi la localizzazione.
Attualmente viviamo invece in uno spazio che si offre come relazioni di dislocazione; uno spazio
del simultaneo, del vicino e lontano, del disperso.
Lo
spazio è anche abitato qualitativamente dai nostri sogni e pensieri, dalle
nostre passioni; può trattarsi di uno spazio leggero e trasparente o di uno
spazio oscuro, aspro, saturo. Questi spazi riguardano lo spazio dell’interno,
quello che abita la nostra anima, ma che può riflettersi nello spazio esterno.
Viviviamo
all’interno di un insieme di relazioni che ci collocano in uno spazio e ci
definiscono e limitano. Queste collocazioni nello spazio non sono
sovrapponibili. Esistono però spazi che in qualche modo sono legati a tutti gli
altri e appartengono a due tipologie: le utopie, prive di un luogo reale, e le
eterotopie, così denominate da Foucault; specie di utopie realizzate; luoghi al
di fuori di ogni luogo.
Un
eterotopia è come uno specchio, reale, ma riflette immagini. Mi permette di
guardarmi là dove sono assente. Mi permette di ritornare verso me stesso.
Volendo
dare una descrizione di questi luoghi altri, si possono dare alcuni principi
che li possano meglio definire.
Principio primo: non esiste cultura al mondo che non produca delle
eterotopie.
Nelle
società primitive esiste una certa forma di eterotopia di crisi: luogo
privilegiato e sacro, riservato a individui che si trovano, in relazione alla
società, in stato di crisi.
Nella
nostra società queste eterotopie di crisi continuano a scomparire e non vi sono
più luoghi atti a giustapporre in un'unica realtà diversi spazi, diversi luoghi
che sono tra loro incompatibili. Qualche residuo si può scorgere nel collegio o
nel servizio militare.
Oggi
ci sono più eterotopie di deviazione, dove vengono collocati individui il cui
comportamento appare deviante in rapporto alle norme imposte: case di riposo,
cliniche psichiatriche e carceri.
Principio secondo: Una società può far funzionare in modo molto
diverso un’eterotopia che esiste e non smette di esistere. Un esempio è il
cimitero che fino al XVIII secolo era posto nel cuore stesso della città,
accanto alla chiesa e diventa poi un luogo a parte, all’esterno della città.
Principio terzo: L’eterotopia ha il potere di giustapporre in un
unico luogo reale diversi spazi, diversi luoghi tra loro incompatibili. Ad
esempio il teatro o il cinema.
Principio quarto: le eterotopie sono connesse molto spesso alla
suddivisione del tempo, a una rottura con il tempo tradizionale. Ancora il
cimitero come esempio si presta bene al caso.
Eterotopie
del tempo che si accumula all’infinito sono le biblioteche, i musei.
Principio quinto: Le eterotopie presuppongono sempre un sistema di
apertura e di chiusura.
Principio sesto: Le eterotopie sviluppano con lo spazio restante
una funzione; hanno il compito di creare uno spazio illusorio.
La
nave è l’eterotopia per eccellenza, perché è un frammento galleggiante di
spazio, un luogo senza luogo abbandonato all’infinito del mare.
Bachelard,
in Psicanalisi delle acque, ci
ricorda che nei nostri occhi è l’acqua che sogna in “una pozza inesplorata di
luce liquida che Dio ha messo in fondo a ognuno di noi” (Paul Claudel, L’oiseau noir). L’acqua culla e ci
invita a un viaggio reale e immaginario. L’acqua cattura il cielo, riflette. Il
vero occhio della terra è l’acqua.
La
navicella del cielo è quella che trasporta Zarathustra che non si accontenta di una “vita
orizzontale” e prova l’ebrezza della verticalità. Così come Nietzsche, altri
poeti sono cullati da meravigliose navicelle del cielo.
La
nave è un motivo di reverie, di fantasticheria, sogno e immaginazione nella
quale l’io, dimentico della sua storia contingente, lascia errare il proprio
spirito e gode di una libertà simile a quella del sogno. Questo stato simile al
sogno è però vissuto in uno stato di veglia. Se arriva un’immagine poetica,
questa illumina la coscienza con una luce così potente che rende inutile la
ricerca degli antecedenti inconsci e apre la strada all’avvenire.
La
possibilità di intervento della coscienza caratterizza la reverie in modo
determinante.
E’
tutto un universo che contribuisce alla nostra felicità quando la reverie
invade il nostro riposo.
La
reverie poetica è cosmica, non vive al ritmo del tempo, ma ci aiuta ad abitare
il mondo.
Silenzio
e spazio sono un “oltre” che presuppone la capacità di ascolto.
La
reverie trasporta il sognatore in un altro mondo e rende il sognatore un altro
se stesso; ma questo sognatore mantiene la padronanza dei suoi sdoppiamenti.
L’alchimia è la lingua antica della reverie e l’acqua, come l’anima, trasporta
e culla nella pace. La pace, non è però assenza di movimento, ma forza operante
che accoglie e tiene in connessione attraverso l’ascolto. E’ quel punto di
vista che assume ogni punto di vista e crea un’armonia. Non è uno stare in pace,
uno stato, ma è piuttosto un allargamento dell’attenzione e un più ampio
movimento dell’interesse cosciente.
Il
meditante si pone infatti sulla soglia verticale dell’evento del mondo e vi
conforma il suo respiro.
Psicologicamente
parlando è nella reverie che siamo esseri liberi. L’arte ha la capacità di
evocare la reverie e di dare corpo a un’assenza. L’arte evoca il paradiso
perduto e la capacità di celebrare l’eternità simbolica. Così come
nell’alchimia, dopo la caduta, dopo la perdita dell’androginia primitiva,
ricerca l’ideale umano attraverso la reverie che idealizza e che è una forza
attiva.
La
cosmicità della nostra infanzia rimane in noi e riappare nelle nostre reveries.
L’infanzia, come archetipo, è il pozzo dell’essere, l’essere che realizza lo
stupore d’essere.
Proprio
nella reverie l’uomo è più fedele a se stesso, in un centro di concentrazione
fluida.
Il
fiore nato nella reverie, è l’essere in fiore del sognatore stesso. Il suo
pensiero non è diviso nella dialettica soggetto-oggetto, il mondo non si oppone
più e la reverie creatrice dà così vita al futuro.
Spesso
realtà e sogno si compenetrano e creano un terzo mondo, forse un’eterotopia.
E
forse l'esempio più antico di eterotopia è il giardino.
In
Oriente era uno spazio sacro. Vi erano quattro sezioni che rappresentavano le
quattro parti del mondo che comprendevano uno
spazio ancora più sacro al centro: la vasca, la fontana con zampillo. Tutta la
vegetazione doveva essere ripartita entro questo spazio, in questa specie di
microcosmo. Scopo di questo luogo altro, di questa eterotopia, era quello di
creare una sorta di rottura con il tempo tradizionale che dava la possibilità,
in realtà, di ritrovare il tempo, risalendo alla propria sorgente, a una specie
di grande sapere immediato.
Un'
eterotopia presuppone sempre un sistema di apertura e di chiusura che, al
contempo, la isola e la rende penetrabile. Questo luogo altro ha una
funzione, rispetto allo spazio restante, che si dispiega tra due poli estremi.
Si crea uno spazio illusorio che indica come ancor più illusorio ogni spazio
reale entro il quale ogni vita umana è relegata. O invece, creano un altro
spazio, reale, così perfetto, da far apparire il nostro come caotico. Si
tratterrebbe di un'eterotopia non di illusione, ma di compensazione.
Nelle
civiltà senza luoghi altri, senza eterotopie, i sogni si inaridiscono e si
spegne la libertà e la creatività che
può nascere dalle reveries
Non bisogna dimenticare che la libertà è una
pratica che ha bisogno di uno spazio funzionale alla sua pratica. Un luogo
ideale e reale nello stesso tempo.
Nella storia troviamo il disegno del giardino come
momento creativo.
Nel Medioevo, col suo spirito legato alla
localizzazione degli spazi e alla gerarchizzazione in funzione di una
spiritualità religiosa, il giardino è situato accanto alle chiese, racchiuso da
un muro di cinta e protetto
dall’esterno, come un paradiso terrestre, destinato alla produzione di pomi
preziosi ed erbe medicamentose.
A seguito dell’opera e della visione galileiana
assistiamo allo sguardo verso l’infinito, tipicamente esperibile nei giardini
inglesi del Diciassettesimo secolo.
Oggi avvertiamo l’unione tra questi due spazi, tra
l’interno e l’esterno, evidente nel giardino orientale cinese e giapponese,
nella piena dialettica microcosmo-macrocosmo che prende forma attraverso il
simbolismo degli elemeneti: la roccia e l’acqua, la montagna e il mare, ma
anche il reale e l’immaginario.
La presenza dell’acqua si ha fin nei primi giardini
creati, quelli persiani, di cui ne abbiamo testimonianza grazie a
raffigurazioni del IV sec. a.C.
Ci si accorge quindi, entrando sempre più nel
concetto di eterotopia descritto da Foucault, come molte caratteristiche che
utilizza per esprimere il suo pensiero abbiano un corrispettivo nei giardini
della storia e delle culture del mondo: il teatro-giardino, in riferimento al
giustapporre in un unico luogo reale diversi spazi; il giardino-museo, come
eterotopia del tempo; i ninfei tipici dei giardini romani (I sec d.C.) e gli
automi dei giardini bizantini (III-VII sec D.C.), con la capacità di creare uno
spazio illusorio; il serraglio come sistema di apertura e chiusura nei giardini
classici del periodo rinascimentale, come eterotopia isolata, racchiusa, ma
penetrabile.
L’acqua come occhio della terra, che ritroviamo
negli scritti di Bachelard, si trova in relazione alle vasche dei giardini
persiani, così come la rêverie lo è rispetto alle dietae e isole del giardino romano, o ancora nei giardini cinesi e
giapponesi.
Da una lezione all’Accademia di Belle Arti di Venezia
Susanna Baumgartner e Massimiliano Cecchetto
BIBLIOGRAFIA
Gaston Bachelard, La poetica della rêverie, Bari, Dedalo 1997
Gaston Bachelard, Psicanalisi delle acque, Milano, red 2006
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Michel Foucault, Spazi Altri, i luoghi delle eterotopie, Milano, Mimesis 2008
Carlo Sini, L’arte,
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Carlo Sini, Il
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Pierre Grimal, L’arte dei giardini, Roma, Donzelli 2005
Paola Maresca, Allegorie e meraviglie nei giardini
d’Oriente, Firenze, Angelo
Pontecorboli 2010