venerdì 28 giugno 2013

SO/STARE


Il progetto, documentato nel libro Isola, Isole, Insulae e articolato in varie opere e testi, ha avuto origine nell’Isola Comacina, sul Lago di Como, donata allo Stato italiano da Alberto I del Belgio nel 1920, con l’affidamento all’Accademia di Brera.
L’artista e docente dell’Accademia Remo Salvadori ha invitato artisti, filosofi, paesaggisti e studenti per collaborare al tema So/stare sull’Isola. Il tema richiedeva un momento di sosta per concentrarsi all’ascolto e per un’ecologia dello sguardo in grado di generare opere, relazioni e riflessioni di un sentire profondo verso l’ambiente.
Il progetto è proseguito al MAC di Lissone, Museo di Arte Contemporanea. Non ha rappresentato un punto di arrivo, ma un momento di confronto, per ri-creare l’organismo vivo e vitale percepito e vissuto sull’isola. Ogni partecipante ha scelto un punto dove poter sostare, originando vari punti-presenze sul corpo dell’isola che hanno generato energie e progetti poi confluiti al MAC di Lissone.
Nella cittadina brianzola sono rimaste poche aree verdi e da So/Stare sono nate opere e riflessioni attente all’aspetto ecologico ed estetico del Paesaggio.

























giovedì 31 gennaio 2013

LEZIONE A VENEZIA

SPAZI ALTRI


Lo spazio non è solo un vuoto, è uno spazio carico di qualità che ha una sua storia.
Nell’esperienza occidentale lo spazio era quello della localizzazione; uno spazio nato nel Medioevo che esprimeva un insieme gerarchizzato di luoghi. Vi erano spazi protetti e difesi, luoghi rurali, luoghi urbani, luoghi sacri o profani.
Questo spazio delle localizzazioni si è aperto con Galilei che ha  costituito con la sua opera  uno spazio infinito e infinitamente aperto.
A partire dal XVII secolo l’estensione sostituisce quindi la localizzazione. Attualmente viviamo invece in uno spazio che si offre  come relazioni di dislocazione; uno spazio del simultaneo, del vicino e lontano, del disperso.
Lo spazio è anche abitato qualitativamente dai nostri sogni e pensieri, dalle nostre passioni; può trattarsi di uno spazio leggero e trasparente o di uno spazio oscuro, aspro, saturo. Questi spazi riguardano lo spazio dell’interno, quello che abita la nostra anima, ma che può riflettersi nello spazio esterno.
Viviviamo all’interno di un insieme di relazioni che ci collocano in uno spazio e ci definiscono e limitano. Queste collocazioni nello spazio non sono sovrapponibili. Esistono però spazi che in qualche modo sono legati a tutti gli altri e appartengono a due tipologie: le utopie, prive di un luogo reale, e le eterotopie, così denominate da Foucault; specie di utopie realizzate; luoghi al di fuori di ogni luogo.
Un eterotopia è come uno specchio, reale, ma riflette immagini. Mi permette di guardarmi là dove sono assente. Mi permette di ritornare verso me stesso.
Volendo dare una descrizione di questi luoghi altri, si possono dare alcuni principi che li possano meglio definire.

Principio primo: non esiste cultura al mondo che non produca delle eterotopie.
Nelle società primitive esiste una certa forma di eterotopia di crisi: luogo privilegiato e sacro, riservato a individui che si trovano, in relazione alla società, in stato di crisi.
Nella nostra società queste eterotopie di crisi continuano a scomparire e non vi sono più luoghi atti a giustapporre in un'unica realtà diversi spazi, diversi luoghi che sono tra loro incompatibili. Qualche residuo si può scorgere nel collegio o nel servizio militare.
Oggi ci sono più eterotopie di deviazione, dove vengono collocati individui il cui comportamento appare deviante in rapporto alle norme imposte: case di riposo, cliniche psichiatriche e carceri.

Principio secondo: Una società può far funzionare in modo molto diverso un’eterotopia che esiste e non smette di esistere. Un esempio è il cimitero che fino al XVIII secolo era posto nel cuore stesso della città, accanto alla chiesa e diventa poi un luogo a parte, all’esterno della città.

Principio terzo: L’eterotopia ha il potere di giustapporre in un unico luogo reale diversi spazi, diversi luoghi tra loro incompatibili. Ad esempio il teatro o il cinema.

Principio quarto: le eterotopie sono connesse molto spesso alla suddivisione del tempo, a una rottura con il tempo tradizionale. Ancora il cimitero come esempio si presta bene al caso.
Eterotopie del tempo che si accumula all’infinito sono le biblioteche, i musei.

Principio quinto: Le eterotopie presuppongono sempre un sistema di apertura e di chiusura.

Principio sesto: Le eterotopie sviluppano con lo spazio restante una funzione; hanno il compito di creare uno spazio illusorio.

La nave è l’eterotopia per eccellenza, perché è un frammento galleggiante di spazio, un luogo senza luogo abbandonato all’infinito del mare.

Bachelard, in Psicanalisi delle acque, ci ricorda che nei nostri occhi è l’acqua che sogna in “una pozza inesplorata di luce liquida che Dio ha messo in fondo a ognuno di noi” (Paul Claudel, L’oiseau noir). L’acqua culla e ci invita a un viaggio reale e immaginario. L’acqua cattura il cielo, riflette. Il vero occhio della terra è l’acqua.
La navicella del cielo è quella che trasporta Zarathustra  che non si accontenta di una “vita orizzontale” e prova l’ebrezza della verticalità. Così come Nietzsche, altri poeti sono cullati da meravigliose navicelle del cielo.
La nave è un motivo di reverie, di fantasticheria, sogno e immaginazione nella quale l’io, dimentico della sua storia contingente, lascia errare il proprio spirito e gode di una libertà simile a quella del sogno. Questo stato simile al sogno è però vissuto in uno stato di veglia. Se arriva un’immagine poetica, questa illumina la coscienza con una luce così potente che rende inutile la ricerca degli antecedenti inconsci e apre la strada all’avvenire.
La possibilità di intervento della coscienza caratterizza la reverie in modo determinante.
E’ tutto un universo che contribuisce alla nostra felicità quando la reverie invade il nostro riposo.
La reverie poetica è cosmica, non vive al ritmo del tempo, ma ci aiuta ad abitare il mondo.
Silenzio e spazio sono un “oltre” che presuppone la capacità di ascolto.
La reverie trasporta il sognatore in un altro mondo e rende il sognatore un altro se stesso; ma questo sognatore mantiene la padronanza dei suoi sdoppiamenti. L’alchimia è la lingua antica della reverie e l’acqua, come l’anima, trasporta e culla nella pace. La pace, non è però assenza di movimento, ma forza operante che accoglie e tiene in connessione attraverso l’ascolto. E’ quel punto di vista che assume ogni punto di vista e crea un’armonia. Non è uno stare in pace, uno stato, ma è piuttosto un allargamento dell’attenzione e un più ampio movimento dell’interesse cosciente.
Il meditante si pone infatti sulla soglia verticale dell’evento del mondo e vi conforma il suo respiro.
Psicologicamente parlando è nella reverie che siamo esseri liberi. L’arte ha la capacità di evocare la reverie e di dare corpo a un’assenza. L’arte evoca il paradiso perduto e la capacità di celebrare l’eternità simbolica. Così come nell’alchimia, dopo la caduta, dopo la perdita dell’androginia primitiva, ricerca l’ideale umano attraverso la reverie che idealizza e che è una forza attiva.
La cosmicità della nostra infanzia rimane in noi e riappare nelle nostre reveries. L’infanzia, come archetipo, è il pozzo dell’essere, l’essere che realizza lo stupore d’essere.
Proprio nella reverie l’uomo è più fedele a se stesso, in un centro di concentrazione fluida.
Il fiore nato nella reverie, è l’essere in fiore del sognatore stesso. Il suo pensiero non è diviso nella dialettica soggetto-oggetto, il mondo non si oppone più e la reverie creatrice dà così vita al futuro.
Spesso realtà e sogno si compenetrano e creano un terzo mondo, forse un’eterotopia.

E forse l'esempio più antico di eterotopia è il giardino. 
In Oriente era uno spazio sacro. Vi erano quattro sezioni che rappresentavano le quattro parti del mondo che comprendevano uno spazio ancora più sacro al centro: la vasca, la fontana con zampillo. Tutta la vegetazione doveva essere ripartita entro questo spazio, in questa specie di microcosmo. Scopo di questo luogo altro, di questa eterotopia, era quello di creare una sorta di rottura con il tempo tradizionale che dava la possibilità, in realtà, di ritrovare il tempo, risalendo alla propria sorgente, a una specie di grande sapere immediato.


Un' eterotopia presuppone sempre un sistema di apertura e di chiusura che, al contempo, la isola e la rende penetrabile.  Questo luogo altro ha una funzione, rispetto allo spazio restante, che si dispiega tra due poli estremi. Si crea uno spazio illusorio che indica come ancor più illusorio ogni spazio reale entro il quale ogni vita umana è relegata. O invece, creano un altro spazio, reale, così perfetto, da far apparire il nostro come caotico. Si tratterrebbe di un'eterotopia non di illusione, ma di compensazione.

Nelle civiltà senza luoghi altri, senza eterotopie, i sogni si inaridiscono e si spegne la libertà e la  creatività che può nascere dalle reveries
Non bisogna dimenticare che la libertà è una pratica che ha bisogno di uno spazio funzionale alla sua pratica. Un luogo ideale e reale nello stesso tempo.

Nella storia troviamo il disegno del giardino come momento creativo.
Nel Medioevo, col suo spirito legato alla localizzazione degli spazi e alla gerarchizzazione in funzione di una spiritualità religiosa, il giardino è situato accanto alle chiese, racchiuso da un muro di cinta e  protetto dall’esterno, come un paradiso terrestre, destinato alla produzione di pomi preziosi ed erbe medicamentose.

A seguito dell’opera e della visione galileiana assistiamo allo sguardo verso l’infinito, tipicamente esperibile nei giardini inglesi del Diciassettesimo secolo.

Oggi avvertiamo l’unione tra questi due spazi, tra l’interno e l’esterno, evidente nel giardino orientale cinese e giapponese, nella piena dialettica microcosmo-macrocosmo che prende forma attraverso il simbolismo degli elemeneti: la roccia e l’acqua, la montagna e il mare, ma anche il reale e l’immaginario.

La presenza dell’acqua si ha fin nei primi giardini creati, quelli persiani, di cui ne abbiamo testimonianza grazie a raffigurazioni del IV sec. a.C.


Ci si accorge quindi, entrando sempre più nel concetto di eterotopia descritto da Foucault, come molte caratteristiche che utilizza per esprimere il suo pensiero abbiano un corrispettivo nei giardini della storia e delle culture del mondo: il teatro-giardino, in riferimento al giustapporre in un unico luogo reale diversi spazi; il giardino-museo, come eterotopia del tempo; i ninfei tipici dei giardini romani (I sec d.C.) e gli automi dei giardini bizantini (III-VII sec D.C.), con la capacità di creare uno spazio illusorio; il serraglio come sistema di apertura e chiusura nei giardini classici del periodo rinascimentale, come eterotopia isolata, racchiusa, ma penetrabile.




L’acqua come occhio della terra, che ritroviamo negli scritti di Bachelard, si trova in relazione alle vasche dei giardini persiani, così come la rêverie lo è rispetto alle dietae e isole del giardino romano, o ancora nei giardini cinesi e giapponesi.





Da una lezione all’Accademia di Belle Arti di Venezia
Susanna Baumgartner e Massimiliano Cecchetto


BIBLIOGRAFIA

Gaston Bachelard, La poetica della rêverie, Bari, Dedalo 1997
Gaston Bachelard, Psicanalisi delle acque, Milano, red 2006
Gaston Bachelard, Psicanalisi dell’aria, Milano, red 2007
Michel Foucault, Spazi Altri, i luoghi delle eterotopie, Milano, Mimesis 2008
Carlo Sini, L’arte, le api e Darwin, Novara, interlinea 2011
Carlo Sini, Il sapere dei segni, Milano, Jaca Book 2012
Pierre Grimal, L’arte dei giardini, Roma, Donzelli 2005

Paola Maresca, Allegorie e meraviglie nei giardini d’Oriente, Firenze, Angelo Pontecorboli 2010